Limiti al diritto di critica: insultare l’azienda sui social può costare caro

L’utilizzo dei social network per esprimere opinioni, idee e dissenso è sempre più frequente e negli ultimi anni la giurisprudenza si è spesso pronunciata su casi di licenziamenti disciplinari di dipendenti che hanno utilizzato le bacheche social per criticare e – in alcuni casi – diffamare l’azienda datrice di lavoro.

La questione è strettamente connessa ai limiti all’esercizio del diritto di critica che segnano il confine tra la libertà di manifestazione del pensiero e la lesione dell’onore e della reputazione altrui.

Il diritto di critica. Contenuto e limiti

Secondo l’art. 21 Cost. «tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione». L’esercizio della libertà di manifestazione del proprio pensiero nell’ambito del rapporto di lavoro, poi, è disciplinato dall’art. 1 St. Lav. che riconosce ai lavoratori la possibilità di assumere anche posizioni critiche nei confronti del datore di lavoro.

Il diritto di critica del dipendente chiaramente incontra dei limiti, quali:

  • il necessario rispetto di altri valori di rango costituzionale come, ad esempio, l’onore e la reputazione del soggetto destinatario della critica ovvero del datore di lavoro;
  • l’adempimento dell’obbligo di fedeltà da parte del dipendente, sancito dell’art. 2105 c.c., da leggere alla luce dei principi generali di correttezza e buona fede che condizionano le modalità di esercizio della libertà di manifestazione del pensiero sia all’interno che all’esterno del luogo di lavoro.

I criteri da rispettare per garantire un equo bilanciamento tra il diritto di critica del lavoratore e il diritto all’onore e alla reputazione del datore e per – conseguentemente – evitare condotte illecite passibili di licenziamento sono stati elaborati dalla giurisprudenza in materia di critica e cronaca giornalistica e, poi, applicati anche ai rapporti di lavoro.

Si tratta dei principi di:

  • continenza sostanziale, secondo cui i fatti sui quali la critica si fonda devono essere veri;
  • continenza formale, secondo cui le opinioni devono essere espresse in maniera moderata e misurata.

In sostanza, i confini dell’esercizio del diritto di critica possono ritenersi superati nel momento in cui si addebitino all’impresa o ai suoi rappresentanti «condotte riprovevoli (anche integranti gli estremi di un reato) non tenute, ovvero si attribuiscano al datore qualità apertamente disonorevoli (anche se vere), utilizzando riferimenti volgari, infamanti e tali da suscitare disprezzo e dileggio» (Cass. 1379/2019).

E quando la critica è espressa con un post pubblicato su un social network?

I limiti al diritto di critica del dipendente valgono a maggior ragione quando la critica viene espressa sui social network in cui la potenzialità di diffusione del messaggio diffamatorio è esponenziale.

Pubblicare su un social network un messaggio offensivo nei confronti di persone facilmente individuabili integra un’ipotesi di diffamazione aggravata proprio perché il mezzo utilizzato è capace di far circolare il messaggio tra un gruppo indeterminato di persone e ciò anche quando la bacheca sia impostata dall’utente come privata e non pubblica, in quanto i social sono da considerarsi luoghi pubblici.

Per tali ragioni è considerato legittimo il licenziamento per giusta causa del dipendente che contesti su un social network il datore di lavoro pubblicando commenti intrisi di espressioni sgradevoli e volgari, prive di qualsiasi finalità divulgativa, aventi come unico scopo quello di ledere il decoro e la reputazione dell’azienda. Una simile condotta travalica ampiamente i limiti della correttezza formale del diritto di critica e sfocia nella diffamazione aggravata, considerata la generale visibilità e diffusività dei messaggi postati sui social.

Si segnala, a tal riguardo, una recente sentenza che ha confermato la legittimità del licenziamento disciplinare irrogato dalla società, per avere il dipendente diffuso tramite Facebook affermazioni diffamatorie nei confronti del datore di lavoro e dei vertici aziendali, attribuendo loro comportamenti apertamente disonorevoli ed infamanti con un post idoneo a qualificare in modo offensivo e dispregiativo l’azienda e altamente lesivo dell’immagine della stessa (Cass. 12142/2024).

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