Secondo l’art. 2934 c.c. «ogni diritto si estingue per prescrizione quando il titolare non lo esercita per il tempo determinato dalla legge». Dunque, la prescrizione è l’estinzione di un diritto dovuta al mancato esercizio da parte del soggetto titolare entro un termine stabilito dalla legge.
Il termine ordinario di prescrizione è decennale, ma l’art. 2946 c.c. fa salvi i casi in cui la legge disponga diversamente. Fanno eccezione, ad esempio, i crediti di lavoro in quanto il codice civile prevede un termine di prescrizione di 5 anni per
- tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi (art. 2948, comma 1, n. 4);
- le indennità spettanti per la cessazione del rapporto di lavoro (art. 2948, comma 1, n. 5).
Da quando decorre il termine di prescrizione?
La decorrenza della prescrizione è disciplinata dall’art. 2935 c.c. secondo cui «la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere», principio che – applicato ai crediti di lavoro – implica la decorrenza della prescrizione dal momento in cui matura il diritto a ogni singola prestazione salariale e, dunque, anche durante il rapporto di lavoro.
Tuttavia, la giurisprudenza ha ritenuto che la peculiarità del rapporto di lavoro incida sull’applicazione dell’art. 2935 c.c.: la situazione psicologica del dipendente, contraente più debole interessato alla conservazione del posto di lavoro e condizionato dal timore del licenziamento, gli impedisce di sentirsi “libero” di far valere i propri crediti retributivi in costanza di rapporto.
È questo il presupposto di una storica sentenza della Corte costituzionale degli anni ’60 che dichiarò costituzionalmente illegittima – per contrasto con l’art. 36 Cost. – la decorrenza durante il rapporto di lavoro della prescrizione del diritto alla retribuzione (C. cost. 63/1966).
Quali sono i principali passaggi della sentenza della Corte costituzionale?
Secondo la pronuncia citata se è vero che durante il rapporto di lavoro «non vi sono ostacoli giuridici che impediscano di far valere il diritto al salario», vi sono, tuttavia, «ostacoli materiali come la situazione psicologica del lavoratore che può essere indotto a non esercitare il proprio diritto per lo stesso motivo per cui molte volte è portato a rinunciarvi, ovvero per timore del licenziamento».
In un rapporto non dotato della resistenza che caratterizza, invece, il rapporto d’impiego pubblico, il timore del licenziamento può spingere il dipendente a rinunciare a una parte dei propri diritti e tale rinuncia non può essere considerata una libera espressione della volontà negoziale.
Anche in una pronuncia successiva il giudice delle leggi ha ribadito tale principio precisando che la particolare forza di resistenza che caratterizza il rapporto di pubblico impiego «è data da una disciplina che normalmente assicura la stabilità del rapporto, o dalle garanzie di rimedi giurisdizionali contro l’illegittima risoluzione di esso, le quali escludono che il timore del licenziamento possa indurre l’impiegato a rinunziare ai propri diritti» (C. cost. 143/1969).
Lo Statuto dei Lavoratori e la maggiore stabilità del rapporto
L’orientamento della Corte costituzionale è cambiato con l’entrata in vigore dello Statuto dei Lavoratori che ha introdotto un sistema sanzionatorio idoneo a fungere da deterrente per i licenziamenti ritorsivi.
In particolare, l’art. 18 nella formulazione originaria prevedeva la reintegra nel posto di lavoro – in caso di licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo in imprese con più di 15 dipendenti – accompagnata dal risarcimento del danno subito. A ciò si aggiungeva l’obbligo del datore, che non avesse ottemperato alla sentenza di reintegra, di corrispondere al lavoratore le retribuzioni dovutegli in virtù del rapporto di lavoro dalla data della sentenza stessa fino a quella della reintegrazione.
La possibilità di essere reintegrati sul posto di lavoro a fronte di un licenziamento illegittimo ha fatto venire meno quella particolare condizione psicologica che induceva il dipendente a non esercitare una pretesa economica in costanza di rapporto per il timore di essere licenziato.
In sostanza, il principio della decorrenza della prescrizione dei crediti di lavoro dal momento della cessazione del rapporto non ha trovato più applicazione tutte le volte in cui «il rapporto di lavoro subordinato sia stato caratterizzato da una particolare forza di resistenza, quale deriva da una disciplina che assicuri normalmente la stabilità del rapporto e fornisca le garanzie di appositi rimedi giurisdizionali contro ogni illegittima risoluzione». Il suddetto principio ha, invece, continuato ad applicarsi a quei rapporti non assistiti dalla garanzia della stabilità, come i rapporti di lavoro nell’ambito di imprese con meno di 15 dipendenti (C. cost. n. 174/1972).
L’inversione di tendenza con la Riforma Fornero e il Jobs Act
L’orientamento sopra descritto è rimasto immutato sino all’entrata in vigore della Riforma Fornero (L. n. 92/2012) e successivamente del D.Lgs. 23/2015 che hanno comportato il passaggio da un’automatica applicazione della tutela reintegratoria e risarcitoria ad ogni ipotesi di illegittimità del licenziamento ad un’applicazione selettiva delle tutele che variano a seconda dell’accertamento di legittimità o illegittimità del licenziamento intimato e della sua natura.
Come ritenuto dalla Cassazione, il comune denominatore dei due provvedimenti legislativi risiede nella frammentazione dell’apparato sanzionatorio dei licenziamenti con ridimensionamento della c.d. tutela reale. Da ciò consegue che il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, così come modulato dalla legge 92/2012 e dal decreto legislativo 23/2015, non sia assistito da un regime di stabilità con la conseguenza che il termine di prescrizione decorra dalla cessazione del rapporto di lavoro per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento dell’entrata in vigore della legge 92/2012 (Cass. 26246/2022; Cass. 33930/2023; Cass. 24589/2024).
Il diverso approccio di alcune pronunce di merito
Negli ultimi tempi alcune Corti di merito – ponendosi in contrasto con l’orientamento di legittimità consolidato – hanno evidenziato come la tutela reintegratoria ex art. 18 Fornero sia ancora idonea a garantire un sufficiente grado di “resistenza” e che anche con le tutele crescenti persista la possibilità per il lavoratore illegittimamente licenziato di ottenere un ordine di reintegra da parte del giudice, pur se in un ventaglio di ipotesi ridotto rispetto al passato.
Nelle pronunce in questione i giudici di merito hanno evidenziato che «se il metus del prestatore di lavoro è quello di essere licenziato in conseguenza delle legittime rivendicazioni avanzate, è evidente che saremmo in presenza di un licenziamento ritorsivo, ancora oggi sanzionato con la nullità e quindi con la reintegra nel posto di lavoro. E ancora è tutelata con la reintegra nel posto di lavoro la illegittimità del licenziamento disciplinare, laddove si ravvisi la insussistenza del fatto contestato, o la illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo in assenza delle ragioni organizzative che avrebbero determinato il licenziamento».
Dall’iter decisionale emerge inoltre come sia evidente la progressiva estensione dell’ambito di applicazione della reintegrazione, anche a seguito delle recenti pronunce della Corte costituzionale che hanno, di fatto, fortemente ridimensionato il perimetro di applicazione della tutela indennitaria. La tutela reale, quale conseguenza di un licenziamento illegittimo, non è dunque stata eliminata e pertanto la prescrizione quinquennale deve continuare ad operare in costanza di rapporto di lavoro pur dopo le novità introdotte dalla legge 92/2012 (Trib. di Salerno 2331 e 2336/2024; Trib. di Bari 2179/2023).
Conclusioni
La questione della decorrenza del termine di prescrizione dei crediti di lavoro resta aperta, considerato che permane un contrasto tra Corte di Cassazione e giudici di merito che attribuiscono un diverso grado di stabilità al rapporto di lavoro.
Secondo l’orientamento prevalente della Cassazione, a seguito della Riforma Fornero e del Jobs Act la perdita della tutela reintegratoria generalizzata ha ridotto la stabilità del rapporto, facendo così slittare la decorrenza della prescrizione alla cessazione del rapporto. Alcuni giudici di merito, invece, ritengono che i residui di tutela reale siano ancora sufficienti a garantire la libertà del lavoratore di agire in giudizio, legittimando così la decorrenza della prescrizione in costanza di rapporto.

