Assenze per malattia e sopravvenuta CIG. Incidenza sul comporto
Con ordinanza del 3 luglio 2025 n. 18073 la Cassazione si è occupata del caso di un lavoratore licenziato per superamento del periodo di comporto, licenziamento considerato illegittimo per non aver scomputato dal periodo di comporto i giorni in cui il dipendente, seppur in malattia, era stato posto in cassa integrazione.
Come evidenziato dalla Suprema Corte, il principio di prevalenza della CIG sulla malattia è sancito dall’art. 3, comma 7 d.lgs. n. 148/2015 secondo cui «il trattamento di integrazione salariale sostituisce in caso di malattia l’indennità giornaliera di malattia, nonché la eventuale integrazione contrattualmente prevista».
Si tratta di una previsione che incide sul titolo dell’assenza: i periodi di integrazione salariale non possono essere computati ai fini della durata del comporto, in quanto quest’ultimo, come limite temporale al potere datoriale di recedere dal rapporto di lavoro in mancanza della controprestazione, presuppone l’attualità dell’obbligo di rendere la prestazione lavorativa ed incide quindi in concreto sul sinallagma contrattuale; la situazione che genera il trattamento di cassa integrazione, invece, costituisce ipotesi di impossibilità sopravvenuta della prestazione per fatto estraneo al lavoratore, sicché rende priva di rilievo la contemporanea situazione di malattia dello stesso.
Lavoratrice in gravidanza licenziabile per colpa grave
Con la sentenza n. 19367 del 14 luglio 2025 la Corte di Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento per giusta causa di una lavoratrice in stato di gravidanza che aveva violato gli obblighi relativi alla comunicazione dell’assenza per malattia e all’invio del certificato medico entro il terzo giorno dall’inizio dell’assenza (come previsto dal CCNL applicato al rapporto) nonché tentato di occultare tale violazione contraffacendo i fax relativi alla malattia.
Tale condotta sleale è stata ritenuta riconducibile all’ipotesi di “colpa grave integrante giusta causa di licenziamento” prevista dall’art. 54 comma 3 lett. a del D.lgs. 151/2001 che, nel prevedere il divieto di licenziamento della lavoratrice dall’inizio della gravidanza fino al compimento di 1 anno di età del figlio, individua alcune eccezioni al “periodo protetto” tra cui quella riscontrata nel caso in esame.
Corte Costituzionale: in caso di licenziamento del lavoratore in stato di incapacità, l’impugnazione può avvenire entro 240 giorni
La Corte Costituzionale con sentenza n. 111 del 18 luglio 2025 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 6 comma 1 della legge n. 604/1966 nella parte in cui non prevede che, se al momento della ricezione della comunicazione del licenziamento o in pendenza del termine di sessanta giorni previsto per la sua impugnazione, anche extragiudiziale, il lavoratore versi in condizione di incapacità di intendere o di volere, non opera l’onere della previa impugnazione, anche extragiudiziale, e il licenziamento può essere impugnato entro il complessivo termine di decadenza di 240 giorni dalla ricezione della sua comunicazione, mediante il deposito del ricorso, anche cautelare, o la comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o di arbitrato.
Deve ritenersi, infatti, irragionevole il mancato riconoscimento di tutela a favore del lavoratore licenziato che non si attivi tempestivamente a causa di una totale, e incolpevole, incapacità di autodeterminarsi: la situazione della persona incapace di intendere e di volere non può essere equiparata a quella del soggetto che tale non è.
Nel caso di specie, si trattava di una lavoratrice che si era trovata, al momento della ricezione del recesso datoriale, in uno stato depressivo di tale gravità da dover essere sottoposta a un trattamento sanitario obbligatorio; per tale ragione non aveva esperito l’impugnazione stragiudiziale entro il termine prescritto, ma solo dopo aver recuperato la pienezza delle sue facoltà intellettive e volitive.
Corte Costituzionale: no al tetto per l’indennità in caso di licenziamento illegittimo nelle piccole imprese
La Corte Costituzionale con sentenza n. 118 del 21 luglio 2025 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1 del decreto legislativo n. 23/2015 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti), limitatamente alle parole «e non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità». In sostanza, secondo il giudice delle leggi è illegittimo il tetto massimo di sei mensilità per l’indennità spettante ai lavoratori licenziati illegittimamente da datori di lavoro con meno di 15 dipendenti, trattandosi di un limite incompatibile con i principi di equità, adeguatezza e personalizzazione del risarcimento.
Resta fermo l’auspicio di un intervento legislativo nel rispetto del principio secondo cui il criterio del numero dei dipendenti non può costituire l’esclusivo indice rivelatore della forza economica del datore di lavoro e quindi della sostenibilità dei costi connessi ai licenziamenti illegittimi, dovendosi considerare anche altri fattori altrettanto significativi, quali possono essere il fatturato o il totale di bilancio, da tempo indicati come necessari elementi integrativi dalla legislazione europea e anche nazionale.

